Folle, crudele,
amatissima Dakar
la gara mito dei malati di Africa
di CARLO
MARINCOVICH
- Tratto da Repubblica
foto tratte dal sito ufficiale di
Fabrizio Meoni -
www.fabriziomeoni.it
È
morto anche Fabrizio
Meoni detto "L'africano". E' morto proprio durante la Parigi-Dakar, la corsa
che in 27 anni ha fatto decine di morti e alla quale era legato da una
passione incommensurabile, di quelle che ti divorano perché la Dakar si può
fare solo se la passione ti scoppia dentro. I soldi e tutto il resto non
contano nulla. 21 morti contati con cura ma solo tra i concorrenti perché se
poi volessimo contare anche quelli tra le popolazioni locali, sarebbe meglio
smettere perché il conto preciso e ufficiale non l'ha mai tenuto nessuno.
Atar, da dove era
partita ieri mattina la tappa, è un piccolo villaggio della Mauritania, con
la piazza del mercato, le botteghe, la gente vociante e il pomposo posto
telefonico pubblico. Quando tentammo, una volta, di chiamare Roma, restammo
un'ora in attesa per poi scoprire che era tutto finto, i topi entravano e
uscivano dagli armadi delle centraline elettromeccaniche portandosi via tra i
denti lunghi pezzi di cavi telefonici. Questa è l'Africa della Dakar,
un'Africa povera, sconsolata e rassegnata dove la celebre corsa, pur tanto
vituperata, porta ogni anno una ventata di novità e di soldi. Eppure proprio
vicino ad Atar c'è una delle biblioteche islamiche più antiche e preziose,
quella di Cinguetti, un villaggio di poche case coperte dalle dune che i
grandi venti del deserto spostano e ridisegnano ogni anno, ogni stagione. Gli
antichi manoscritti erano ammassati tra la sabbia diventata dura come pietra
ma alcun pagine svolazzavano ancora sotto il soffio della brezza mattutina.
Nessuno ha un euro da spendere per riportare quel posto al suo antico
splendore quando le carovane dell'oro e del sale passavano tutte di lì. Anche
questa è l'Africa della Dakar.
Come lo è quella dei
bivacchi notturni ad ogni tappa. Un accampamento allucinante che sorge in
poche ore e vive poche ore perché
il giorno dopo si va da qualche altra
parte, lontanissimo, a centinaia di chilometri di distanza. Ecco, dormire
alla Dakar è davvero un problema. Se dormi in un sacco a pelo sotto le stelle
luccicanti del deserto, sarà una lotta continua con animali di ogni tipo. Se
dormi in tenda, senti i topi che ronzano attorno perché si sono accorti che
c'è qualcosa da mangiare. Se dormi in macchina, muori di caldo e di sudore.
Poi ti alzi all'alba e via per la prossima tappa, fatta di sabbia piatta, di
dune, montagne, cespugli, rocce dentro le quali devi destreggiarti per ore
senza mai perdere la bussola. Come in barca, come sull'oceano.
Fabrizio Meoni era uno dei grandi personaggi della Dakar. Ne aveva vinte due
e aveva vissuto le vittorie di tanti altri miti di questa
corsa, gli Orioli,
i Perthansel, gli Auriol. Ma gli altri? Ne abbiamo sentito i nomi quando sono
morti. Un giorno in un albergo di Bamako, capitale del Mali, fummo avvicinati
da un giovanotto bianco e slavato ma inequivocabilmente vestito da dakariano
con la sua tuta variopinta di pelle, gli stivaloni e il casco. Ci chiese se
poteva farsi una doccia nella nostra camera. Visto lo stato penoso in cui era
ridotto gli demmo le chiavi e più tardi non vedendolo tornare pensammo ci
avesse derubati di tutto e fosse fuggito. Invece dormiva per terra, avvolto
negli asciugamani del bagno. Poi ci raccontò la sua storia. Una settimana
prima era caduto con la sua moto. Lo raccolse dopo tre giorni il "camion
scopa", un automezzo che ripercorre la Dakar per raccogliere tutti gli
infortunati non gravi. Poi altri tre giorni per arrivare nel Mali. E
finalmente una doccia e una dormita.
La Dakar è sempre stata, negli ultimi 25 anni, il sogno di ricchi e poveri.
Purché capaci di soffrire. Abbiamo visto soffrire fior di
miliardari che a
Milano giravano in Rolls e fior di poveri. Anche Meoni era un povero. Le
prime corse se le pagava con quel che guadagnava con la sua officina. Eppure
tutti avevano questo benedetto o maledetto mal d'Africa che tanto affligge
chi c'è stato anche una sola volta. Il mal d'Africa è una brutta bestia o una
fata turchina, secondo come e da dove lo si guarda. Certo, suona male se uno
pensa ai vecchi coloni africani che comandavano a bacchetta i locali. Suona
divinamente bene quando la notte vi addormentate nel deserto e guardate il
cielo senza pari del Sahara, nel cuore del Teneré o vi affacciate sulle rive
placide di un fiume che finisce nel nulla come il Niger.
Quando nacque la Dakar era una corsa per modo di dire. Si partiva da Parigi,
questa era l'unica cosa certa e non si sapeva se e
quanti avrebbero raggiunto
il traguardo. Era un'avventura, una grande avventura per giovani che
arrivavano da mezza Europa. Si partiva come si era. Cioè con moto messe
insieme alla meglio, con vecchie Peugeot o Renault e con pochi quattrini in
tasca. Ma si partiva col cuore e con la voglia di fare un'esperienza unica.
Poi diventò una corsa vera e propria, nella quale non mancarono gli astri
dell'automobilismo e i grandi mezzi che siamo abituati oggi a vedere nella F.1.
Un anno, mi pare negli ?80, c'era anche Jean Todt allora sconosciuto ai più e
i suoi piloti del calibro di Vatanen. Alloggiavano in lussuosi motor home con
aria condizionata, cuochi e cucine e massaggiatori. Tutta l'organizzazione
che Todt portò poi alla Ferrari era già stata collaudata nel pieno del
deserto africano. Ma fu un'eccezione. La Dakar vera è rimasta quella dei
poveri, degli innamorati del deserto.
In un quarto di secolo è cambiata la Dakar ma è cambiata anche l'Africa. E
tutte e due sono cambiate in peggio. La grande corsa ormai non può entrare
più in molti paesi e così è costretta a girovagare in tondo sempre negli
stessi posti. La tappa dell'altro giorno era Atar-Atar. Non c'è più il Tenerè,
l'Algeria e altri paesi sono stati chiusi da guerre civili o rifiuto della
grande corsa. Gran parte dell'Africa di oggi è piena di pericoli, più oggi di
quanti ne offrisse ai tempi dei grandi esploratori. Così è cambiato anche
l'approccio mentale di una carovana di bianchi che scorrazza a gran velocità
in mezzo ai neri. Anche la Dakar, come tutte le corse, è un evento da
consumare in fretta, rispettando tempi strettissimi, e poi via. Per tornare
puntuali l'anno dopo. Ma è difficile scrollarsela di dosso.
Eppure la Dakar, con tutti i suoi morti e le sue malefatte, resta pur sempre
la regina delle grandi corse. La più imitata ma mai uguagliata. Ha fatto
sognare, e fa ancora sognare, generazioni di giovani europei perché nessuna
gara al mondo raccoglie tanta gente di tanti paesi.
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